Omologazione non richiesta

La pagina deve essere bianca e il segno scuro. L'idea deve contenere un sogno che sconfini nella passione, la memoria deve avere il coraggio di esistere. Il blogger deve credere di possedere la scrittura: solo così i segni sulla pagina vivranno più a lungo di lui.

Le mie foto
Nome:
Località: Sicilia, Italy

Scrissi molto e a lungo. Inutilmente poi ho atteso risposte che non arriveranno mai. Scrivo ancora per ricordarmi d’esistere e fermare il suo sapore. Ho deciso di lasciare visibili tutti i commenti, sono parte del blog.Non riuscirò mai a conciliare l’inconciliabile e non c’è più tempo comunque: attraversare tante vite e tanti territori mi ha arricchito e spogliato allo stesso tempo ed io sono siciliano, quando rido ho dietro l’ombra della morte e dell’inutilità, se piango lo faccio di nascosto davanti al mare, l’unico interlocutore assoluto che conosco. Sono figlio dell’ alta borghesia colta palermitana, cresciuto a pane e letteratura, ad urla e silenzi, a scirocco e nebbie lombarde, a Mozart e beat generation: per lungo tempo ho creduto che fosse possibile vivere tutte queste sinapsisenza strappare la tela della mia vita. E’ una menzogna. OMOLOGAZIONE NACQUE NEL 2008 questa era il suo incipit e questo il suo template originale. Resterà tale, è una questione di affetto.

mercoledì 5 novembre 2025

MATRAXIA-

Scrivere di Agrigento, scrivere nel suo caos non mi sta facendo particolarmente bene; sento che sto scrivendo di me ed avrei voluto descrivermi diverso, meno disastrato, sta facendo riemergere dentro la mia memoria figure ed atteggiamenti di un’altra mia vita. Tornano a delinearsi volti così lontani da declinare un’altra appartenenza, ma io mi sforzo, se pazzia deve essere che sia almeno lucida. 
La signorina Matraxia mi amò, in un tempo lontano ed io amai il suo essere schiva e proibita; mi ripetevo, di tanto in tanto, più il suo cognome che il suo nome, quel suono così greco e deciso. Giulia Matraxia, mi accorsi di amare più il tuo muoverti altero che il sapore della tua bocca, e quindi ti lasciai. La settimana prima della nostra “fine”, guardandoci negli occhi, parlammo di tutto il resto che era come parlare di noi: ricordo bene la sensazione di galleggiamento instabile che tuttavia pareva piacere ad entrambi. Eri molto colta Giulia, fra le tue frequentazioni anche i personaggi importanti e le loro fisime; il libro che avevi fra le mani era di Pirandello, i quaderni di Serafino Gubbio operatore, non si trattava certo di un’opera erotica né tantomeno sentimentale; giocavamo Giulia, scherzavamo con fuoco nell’intento di bruciarci. “Nessuno se n’accorge, o mostra di accorgersene, forse per il bisogno che è in tutti di trarre momentaneamente un respiro di sollievo dicendo che, ad ogni modo, il forte è passato. Dobbiamo, vogliamo rassettare un po’, alla meglio, noi stessi e anche tutte le cose che ci stanno attorno, investite dal turbine della pazzia; perché rimasto non solo in tutti noi, ma pur nella stanza, negli oggetti stessi della stanza, quasi un attonimento di stupore, un’incertezza strana nell’apparenza delle cose, come un’aria di alienazione, sospesa e diffusa…” PIRANDELLO- Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Tornare oggi ad Agrigento è una scelta voluta, la volontà di dare un senso ai miei anni perduti, un tentativo di colmare l’inquietudine che serpeggia ovunque. C’è un luogo, nascosto nella parte più alta della città dove si apriva una porta che non guardava il mare: Pirandello la chiamava Bar-er-rijah (porta dei venti) che poi è diventata in dialetto Bibbirria, il luogo era ed è rimasto la parte più povera e nascosta della città, sorvegliato dal palazzo arcivescovile, dalla cattedrale e da un Seminario così cupo da sembrare più una prigione che un luogo di studi. Guardarla ora mi lascia solo un senso di vuoto, persino Giulia appare lontanissima e sbiadita; meglio volgere lo sguardo alla costa vicina e al mare, stampato sullo sfondo come una pennellata di celeste rettilineo. E quindi dico io adesso godiamoci questo presente e il futuro che ne verrà, qualcosa si dovrà pur fare, qualcosa si dovrà pur scrivere e su molte cose dovremmo almeno riflettere. 
Al Caos non intendo tornare: troppi ricordi e troppo pungenti, non servirebbe, rivedere il pino scheletrito accanto all’urna murata che contiene le ceneri dello scrittore mi farebbe sentire già finito. Ritengo di essere stato abbastanza fortunato: la signorina Matraxia mi disse addio con un sorriso (fu l’unica) e mia madre ha ancora la forza di ridere dei miei tentennamenti. Mi lascerò alle spalle Agrigento, attraverserò la valle, i templi color miele e,raggiunta la costa, andrò verso occidente e verso il sole che stasera mi racconta storie che possono avere ancora un futuro, anche qui, anche in quest’isola, anche per me.

venerdì 31 ottobre 2025

J'accuse, sempre a proposito di Nobel

Esiste un libro dal titolo emblematico, "J'accuse", in cui Francesca Albanese compie una delle operazioni più ciniche dell’antisemitismo contemporaneo: l’inversione delle colpe. 
Il riferimento a Émile Zola non è casuale: nel celebre pamphlet J’accuse…!, lo scrittore francese denunciava l’antisemitismo dietro l’affaire Dreyfus, difendendo un ebreo ingiustamente accusato. Albanese, invece, stravolge quel grido di giustizia per ribaltare le responsabilità: come usa il termine "genocidio" per attuare una Holocaust inversion—ossia equiparare Israele ai nazisti—così strumentalizza "J'accuse" per gettare sugli ebrei l’ombra del razzismo. Ma oggi, se c’è qualcuno che merita un vero "J'accuse", è proprio Francesca Albanese. 
Perché poche figure, nel dibattito pubblico odierno, hanno le mani così sporche di sangue. Albanese non ha mai preso le distanze da Hamas, né ha condannato con chiarezza gli stupri, le mutilazioni e i massacri del 7 ottobre. Anzi, ha sempre presentato il gruppo terroristico come una "resistenza legittima", negandone la natura genocidaria sancita anche dall’UE e dagli USA. Ma il suo ruolo va oltre l’ambiguità: è una complicità attiva. Mentre Israele seppelliva le sue vittime, Albanese sfruttava quell’orrore per alimentare la sua narrazione. Non solo ha legittimato la violenza, ma ha contribuito a polarizzare il conflitto, rendendo impossibile qualsiasi dialogo. La sua retorica—che deumanizza gli israeliani, nega il loro diritto all’autodifesa e dipinge Hamas come un interlocutore accettabile—non è solo disonesta: è incendiaria. 
C’è però un aspetto ancora più disgustoso: Albanese ha costruito la sua carriera su questo odio. Mentre le vittime del 7 ottobre venivano straziate, lei si crogiolava nel ruolo di paladina della "causa palestinese", sapendo che il sangue versato avrebbe garantito visibilità e consensi in certi ambienti. È la stessa dinamica dei "turisti del conflitto": attivisti e accademici che trasformano la sofferenza altrui in opportunità personale. 
Francesca Albanese non è un’osservatrice neutrale: è una propagandista. Ogni sua parola alimenta l’antisemitismo, ogni suo silenzio sui crimini di Hamas ne fa una corresponsabile morale. Se vogliamo davvero giustizia, è a lei—e alla sua narrazione tossica—che dovremmo rivolgere un secco "J'accuse". Perché finché personaggi come lei continueranno a negare la verità, la pace resterà un’utopia.