Omologazione non richiesta

La pagina deve essere bianca e il segno scuro. L'idea deve contenere un sogno che sconfini nella passione, la memoria deve avere il coraggio di esistere. Il blogger deve credere di possedere la scrittura: solo così i segni sulla pagina vivranno più a lungo di lui.

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Località: Sicilia, Italy

Scrissi molto e a lungo. Inutilmente poi ho atteso risposte che non arriveranno mai. Scrivo ancora per ricordarmi d’esistere e fermare il suo sapore. Ho deciso di lasciare visibili tutti i commenti, sono parte del blog.Non riuscirò mai a conciliare l’inconciliabile e non c’è più tempo comunque: attraversare tante vite e tanti territori mi ha arricchito e spogliato allo stesso tempo ed io sono siciliano, quando rido ho dietro l’ombra della morte e dell’inutilità, se piango lo faccio di nascosto davanti al mare, l’unico interlocutore assoluto che conosco. Sono figlio dell’ alta borghesia colta palermitana, cresciuto a pane e letteratura, ad urla e silenzi, a scirocco e nebbie lombarde, a Mozart e beat generation: per lungo tempo ho creduto che fosse possibile vivere tutte queste sinapsisenza strappare la tela della mia vita. E’ una menzogna. OMOLOGAZIONE NACQUE NEL 2008 questa era il suo incipit e questo il suo template originale. Resterà tale, è una questione di affetto.

venerdì 31 ottobre 2025

J'accuse, sempre a proposito di Nobel

Esiste un libro dal titolo emblematico, "J'accuse", in cui Francesca Albanese compie una delle operazioni più ciniche dell’antisemitismo contemporaneo: l’inversione delle colpe. 
Il riferimento a Émile Zola non è casuale: nel celebre pamphlet J’accuse…!, lo scrittore francese denunciava l’antisemitismo dietro l’affaire Dreyfus, difendendo un ebreo ingiustamente accusato. Albanese, invece, stravolge quel grido di giustizia per ribaltare le responsabilità: come usa il termine "genocidio" per attuare una Holocaust inversion—ossia equiparare Israele ai nazisti—così strumentalizza "J'accuse" per gettare sugli ebrei l’ombra del razzismo. Ma oggi, se c’è qualcuno che merita un vero "J'accuse", è proprio Francesca Albanese. 
Perché poche figure, nel dibattito pubblico odierno, hanno le mani così sporche di sangue. Albanese non ha mai preso le distanze da Hamas, né ha condannato con chiarezza gli stupri, le mutilazioni e i massacri del 7 ottobre. Anzi, ha sempre presentato il gruppo terroristico come una "resistenza legittima", negandone la natura genocidaria sancita anche dall’UE e dagli USA. Ma il suo ruolo va oltre l’ambiguità: è una complicità attiva. Mentre Israele seppelliva le sue vittime, Albanese sfruttava quell’orrore per alimentare la sua narrazione. Non solo ha legittimato la violenza, ma ha contribuito a polarizzare il conflitto, rendendo impossibile qualsiasi dialogo. La sua retorica—che deumanizza gli israeliani, nega il loro diritto all’autodifesa e dipinge Hamas come un interlocutore accettabile—non è solo disonesta: è incendiaria. 
C’è però un aspetto ancora più disgustoso: Albanese ha costruito la sua carriera su questo odio. Mentre le vittime del 7 ottobre venivano straziate, lei si crogiolava nel ruolo di paladina della "causa palestinese", sapendo che il sangue versato avrebbe garantito visibilità e consensi in certi ambienti. È la stessa dinamica dei "turisti del conflitto": attivisti e accademici che trasformano la sofferenza altrui in opportunità personale. 
Francesca Albanese non è un’osservatrice neutrale: è una propagandista. Ogni sua parola alimenta l’antisemitismo, ogni suo silenzio sui crimini di Hamas ne fa una corresponsabile morale. Se vogliamo davvero giustizia, è a lei—e alla sua narrazione tossica—che dovremmo rivolgere un secco "J'accuse". Perché finché personaggi come lei continueranno a negare la verità, la pace resterà un’utopia.

lunedì 27 ottobre 2025

SCHIUMA DI AQUILONI


Schiuma d’aquiloni
è la traccia che resta.
Ho diviso la notte dal giorno,
ho creduto di poterlo tenere
con me.
Ho gridato a tutto il mondo
la mia conquista.
Non era vero, l’altro da me
mi ha beffato.
Doveva farlo e si è allontanato
alla nascita,
ora va e viene nel mio orizzonte
e non posso dire se sia mutato
e come.
Ansia talvolta, stupore sempre
ma l’amore non è finito:
è solo volato via per sfiorarmi,
sfigurarmi,
per sconfiggermi e tradirmi.
Gioca padrone con la libertà e la luce
poiché le comprende entrambe.
Qui sotto non sarebbe restato
a farsi maltrattare dal tempo.
A volte desidero che mi uccida
presto, sono stanco di privarmi
del suo abbraccio.
Lo cerco con lo sguardo
lo intravedo mentre simula
indifferenza.
Mi dice d’attendere pochi istanti:
appena trent’anni, un lieve gesto di vita…
ride mentre lo dice.
L’amore è volato via.

giovedì 23 ottobre 2025

CAOS -

Tengo segrete alcune cose scritte nel tempo: le guardo con un finto sospetto...vorrei che si rivelassero da sole. Certune illanguidiscono da sè, altre sono partorite da momenti particolari. Questa è nata, come volontà d'uscire allo scoperto, per qualche chiacchiera al telefono con una donna "speciale": Caos è dedicata a lei. 
Le ossessioni dominano questo paesaggio: una linea azzurra conosciuta fin da bambino sotto la guida di una madre attenta, dispensatrice di richiami segreti e di libri regalati con allegra noncuranza. Decine volte mi sono affacciato sul mar d’Africa in questi anni per cogliere la metamorfosi da vita a forma, la dialettica eterna, l’ossessione di Luigi Pirandello. Il mare in fondo alla vallata pigra è lattiginoso, sempre placido e sfumato in un chiarore che racconta lunghe partenze ed infiniti ritorni. Lo ricordo così dalla prima volta: dalla visita dei miei dodici anni con padre e madre a sorvegliare la mia inquietudine. “Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d'olivi saraceni affacciata agli orli d'un altipiano di argille azzurre sul mare africano... Per uno spavento che s'era preso a causa di questa grande morìa, mia madre mi metteva al mondo prima del tempo previsto, in quella solitaria campagna lontana dove si era rifugiata. Un mio zio andava con un lanternino in mano per quella campagna in cerca d'una contadina che aiutasse mia madre a mettermi al mondo... Raccattata dalla campagna la mia nascita fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle... confesso che di tutte queste cose non mi sono fatta ancora né certo saprò farmi mai un'idea". Queste erano le parole del padrone di casa, di Pirandello, mi raccontava mia madre, traendole da un libro che teneva aperto davanti a lei. A quel tempo il maestoso pino vegliava ancora le ceneri rannicchiate dentro il muro ed io tremavo segretamente a quest’idea violenta di uno spirito-cenere diffuso tutto intorno, pronto a ghermirti e a cambiare la tua vita per sempre. Lo sgomento che provavo allora verso la desolante vista di Agrigento, quinta cenciosa a far da sfondo ai miei sogni di ragazzo non era inferiore. Il pino non c’è più, nulla dura per sempre nemmeno i nostri desideri; stavolta l’uomo non ha nessuna responsabilità verso i frutti del suo ingegno, l’albero fu messo con le radici all’aria da un violentissimo temporale una ventina di anni fa. Pirandello non avrebbe voluto sepoltura alcuna ma abbozzò un compromesso già nelle sue ultime volontà e lo ottenne: nudo e spoglio, cremato, a sorvegliare il caos indistinto dal quale tutti traiamo forza e voluttà. Non sono mai riuscito a considerare questo compromesso una forma di sconfitta, oggi mi sembra anzi una suprema attitudine al controllo di tutto, anche delle variabili della morte. “Niente vorrei avanzasse di me; ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui.” Respiro a fondo il senso di attesa di questo luogo e mi domando quanto io sia imprigionato dentro la parte mia di vita, quante battute ho pronunciato dentro l’ombra di questa rappresentazione; ma sono stato sempre attento, la mia parte e la vostra parte legate da una placenta vitale, preciso nei tempi e nei modi perché una battuta fuori posto e il teatro andrebbe in rovina. Questa è la forma signori miei, l’unica scelta possibile per un artista, la forma partorita da te, dalla tua arte, la tua visione dentro alla quale ti muovi come un’ombra. Le recite a soggetto sono possibili solo qui; nella vita concreta questo non è concesso, lì siamo solo marionette mosse dal vento con un canovaccio imposto misteriosamente e sempre nuovo e crudele per noi. Vorrei poteste sentire sul viso la carezza del lieve scirocco che sale dal mare e il grande silenzio che si allarga sul cuore.

venerdì 17 ottobre 2025

CESARE

Mia madre non voleva e probabilmente aveva ragione ma a casa entravano mediamente una decina di libri al mese che si andavano a aggiungere ai molti già presenti nella grande libreria di noce che campeggiava in salotto. All’età di dieci anni avevo a disposizione un gran numero di testi: favole, romanzi d’avventura per ragazzi ed altro ancora. Che bisogno c’era di dedicarsi alla letteratura più adulta? Nessuna ma era esattamente quella che mi attirava, in fondo il senso del proibito è una molla fortissima per avventurarsi verso l’ignoto. 
Così riuscii appena lasciata la fanciullezza ad agguantare testi che non erano esattamente digeribili per un ragazzino di dodici anni: Svevo, Pirandello, Leopardi, Levi, Lampedusa, Deledda, Serao ed altri ancora. Facevano tutti a pugni con i fumetti dei miei coetanei, in realtà parlarne mi escludeva da quei consorzi umani, se volevo entrarci era meglio aggiornarmi su Tex Willer, Diabolik e cose simili. Mi aggiornai. Però alcuni testi sfuggivano alla mia ricerca personale: di giorno prima di pranzo li intravedevo su un ripiano e un’ora dopo non c’erano più e sapevo bene che chiederne conto sarebbe stato peggio; a me dovevano bastare il diario di Anna Frank oppure il Calvino del Barone rampante, il Copperfield di Dickens o il Taras Bulba di Gogol. Dostoevskij era lontano, Poe molto più vicino e Cervantes francamente poco comunicativo per me. 
Erano gli anni dei primi pruriti, dei Playboy nascosti in cantina, dei profumi delle ragazze e di certe vertigini incontrollabili; Cesare era in agguato. Nel 1965 il primo anno di liceo mi schiuse orizzonti nuovi e vertigini ancora più inquietanti: la consuetudine con certa letteratura mi aiutò molto a non affogare del tutto dentro le ideologie, dentro una violenza e una voglia di contrapporsi micidiale. Ero un sognatore acceso e nulla sapevo dei sogni. A Tiziana parlavo del sud in Piazza Duomo, lei mi rispondeva ma io guardavo le sue cosce sperando che non se ne accorgesse. Guardavo il futuro senza saperlo, immaginavo una costruzione perenne, una solidarietà di intenti che avrebbe obbligatoriamente condotto a un nuovo mondo e a una nuova umanità, fermo restando il fascino imprescindibile delle ragazze. 
Poi un pomeriggio di novembre in una città inghiottita dalla nebbia, dietro un buon numero di libri di Croce, mentre pensavo di trovare il modo di incontrare lei in altro modo eccitandomi più del dovuto, mi trovai tra le mani “ Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Non saprei ancora dire se fosse quello il momento adatto per incontrare Cesare Pavese ammesso che ce ne sia uno adeguato, l’unica cosa che so è che lo rilessi più volte sussurandolo. Non scesi muto nel gorgo, la giovinezza era più forte ma guardare dal ciglio di quell’abisso fu un’esperienza indimenticabile che negli anni è tornata più volte a ricordarmi la fine dentro qualsiasi inizio. Capii anni dopo perché mia madre mi tenne lontano il più a lungo possibile da quel contesto e provare poi a usare altri testi, in quegli anni di rivoluzione permanente, a usare la Casa in collina e il Mestiere di vivere non servì ad allontanare il presagio di un amore impossibile, l’unico che alla fine mi è appartenuto. 
Oggi se rileggo quei versi sono asciutto, oggi posso anche farli miei, oggi la poesia non mi distrugge la vita ma nemmeno mi aiuta: Cesare si suicidò io vivrò finchè è possibile, sono passati troppi anni da quell’agosto del 1950 ma che il desiderio di Costance possa aver causato una simile terribile meraviglia è una sorpresa che mi attraversa ancora da quel novembre dei miei primi quindici anni.

venerdì 10 ottobre 2025

TUTTI SCRITTORI NESSUN LETTORE -

Il maggiore pericolo che si corre nell'affrontare l’argomento “scrittura” su un articolo di un blog sconosciuto, da perfetto sconosciuto (siamo tutti così), è quello di apparire saccente. Invece io vorrei dire alcune cose da lettore e basta: certo un lettore con una certa pratica di scrittura e molti anni di rete sulle spalle. La scrittura è comunicazione a parer mio, trasmissione di concetti, esperienze, emozioni. Non c'è modo più elevato di conservare la propria traccia esistenziale nel tempo della scrittura. L'esercizio "libero", come quello esercitato qui per esempio, è importante certo ma poi entrano in gioco altri fattori e non sempre essi sono quantificabili e prevedibili. Dipende per es. dalla cultura personale di chi scrive e di chi legge, dall'abitudine alla lettura di qualcosa che superi le tre righe dei social. Ma la scrittura, a qualsiasi genere letterario si rivolga, è soprattutto una liberazione per chi la produce e un'avventura per chi ne usufruisce. Non c'è una cifra stilistica sempre uguale da riferimento, vi sono testi che pur essenziali e nudi entrano dentro immediatamente, altri ben costruiti e "nobili" che restano irrimediabilmente fuori. Quello che mi dà più fastidio nei testi che affronto da lettore è la forzata e snobistica presunzione di voler essere a tutti i costi "di tendenza", di volersi inserire in una cerchia ristretta da elite culturale….pur di raggiungere questo scopo ho letto testi inguardabili, astrusi, fumosi e pieni di spocchia salutati con grandi applausi da una cerchia ristretta di aficionados di quel blogger. Il web è pieno di esempi simili, all’inverso testi bellissimi, luminosi e originali fanno la muffa in certi blog dove trovare un commento e un lettore è una rarità. D’altronde nella letteratura ufficiale conosciamo esempi perfetti di scrittori o poeti quasi sconosciuti che hanno lasciato una traccia indelebile nell’animo del lettore pur senza avere nulla delle cose che oggi fanno un caso letterario di un libro. Ci sono decine di titoli in libreria che hanno come autori il politico di turno, l’attore, l’attrice, l’anchorman, il giornalista che improvvisamente vengono omologati al rango di scrittori ma ne sono lontanissimi. Un libro se è buono entra, ti obbliga a riflettere. E ti porta via.

mercoledì 1 ottobre 2025

FOEMINAE -

Tutti si dicono slegati e infastiditi dalle ricorrenze “per forza”, dalle feste inutili e convenzionali che non ossequiano e non premiano altri che i ristoratori o i fiorai: vale per la festa del papà e per quella della mamma, vale ancora di più per quella delle donne. In Sicilia ho capito alcune cose importanti e altre le ho definitivamente eliminate dal mio bagaglio esistenziale. Le idee e le sensazioni cresciute con me negli anni dell’adolescenza in sella ai pedali di una bicicletta tra i filari di pioppi della bassa padana sono diventate forti e chiare dopo aver riattraversato lo stretto. Ho amato, profondamente e senza alcun ricambio: è l’unico modo per diventare uomini. 
Comprendere ad un certo punto della propria esistenza che ognuno è solo e che la fragranza di una donna è solo un meraviglioso dono fugace e non prevede appartenenze di sorta. Una ragazza è solo sua, mai apparterrà a nessuno: il legame sessuale è solo una parentesi che ha un senso in una dimensione di libertà. Le donne non ci appartengono perché dividono un coito con noi, questa è un’idea che dalle mie parti è giunta tardi ostacolata dai profumi d’oriente. Le donne sono l’umanità, il tramite unico per il nostro restare su questo pianeta, il nostro unico futuro biologico; fuori da questo contesto non hanno sesso e restano esseri come tutti, intelligenti o stupidi, interlocutori reali, squisiti archetipi a volte di quanto di più alto e nobile l’umanità possieda e insieme assioma funesto di bassezze e crudeltà senza fine. Esseri umani con diritti e doveri come tutti dovremmo averne. Le curve sinuose con cui esse disegnano il loro cammino sulle nostre strade sono una provocazione continua alla nostra intelligenza mal costruita, l’occasione, spesso fallita per molti di noi, per superare d’intuito l’aspetto esteriore delle cose e amare veramente l’essenza. Le donne sono una magia che di volta in volta molti di noi sciupano accontentandosi di mediocri spettacoli di prestigio: in verità temiamo il grande incantamento e il senso di perdizione che esso porta con sé. 
Così stupriamo invece di amare, limitiamo invece di liberare, ci comportiamo da maschi e abbiamo solo femmine mentre dovremmo essere uomini e confrontarci con le donne. Pensavo queste cose confusamente a sedici anni dentro un liceo o passeggiando in piazza del Duomo a Milano, sono diventate chiare con un diamante ormai volgendo lo sguardo sul golfo di Palermo in un giorno d’inverno, attendendo l’ennesima primavera.