La pagina deve essere bianca e il segno scuro. L'idea deve contenere un sogno che sconfini nella passione, la memoria deve avere il coraggio di esistere. Il blogger deve credere di possedere la scrittura: solo così i segni sulla pagina vivranno più a lungo di lui.
L’estate rovente appena trascorsa, quella dei miei sessantanni non la dimenticherò: mi ha regalato il senso preciso della fine di un’epoca. Da ragazzo leggevo di ciò che era stato e immaginavo le emozioni di altri davanti a certe chiusure.
Nulla è paragonabile alla sensazione forte e corporea di una stagione che si chiude.
Non è solo la mia, non è nemmeno quella di una persona che langue in un letto e gira sempre più stancamente le lancette del suo orologio vitale. E’ il suono corale di molte voci che una ad una lasciano il posto ad altre più nuove e diverse.
La mia generazione ha dato, bene o male ha lasciato un segno deciso su questo web, io ne sono convinto.
Lasciatemi pensare che alcuni di noi avevano dignità e cultura e cuore e fantasia e che tutte queste cose RESTANO finchè restano le parole che le testimoniano. Ve ne ho indicato tempo fa alcune quasi sperando che la costruzione, la giovinezza. la maturità e la fine di un blog fossero qualcosa di più di un semplice accidente virtuale; la mia indicazione non segue la logica dell’audience ma quella della qualità e della verità personale di chi scrive. Da questo punto di vista io sono stato fortunato, ho incrociato in rete alcuni blogger di valore assoluto e di colore ideologico e letterario molto diversi tra loro.
Solo pochi sono tuttora attivi gli altri sono semplicemente andati via: è rimasta la loro traccia, il piacere, almeno per me, di rileggere le loro pagine.
Non c’è cosa più dolce e significativa, attraversare con attenzione e spirito nuovo le righe ferme sulla pagina virtuale del tempo, farlo per il gusto di capire meglio o riprovare un’emozione scevra da qualsiasi interesse immediato di conversazione e contatto. I blogger che veramente meritano devono essere così, la condivisione non viene uccisa dal commento mancato, i sogni non muoiono all’alba di un nuovo post che non c’è.
Infilò la chiave nella toppa senza alcuna esitazione, aveva esitato abbastanza nelle ore precedenti. Il palazzo lo conosceva bene, anche troppo, non ci entrava da quasi un anno, cioè dalla morte di sua madre; ogni tanto uno sguardo alla facciata passandoci davanti con la macchina quasi fosse un gioco, sciocco o macabro non si era mai risolto a definirlo.
- Dottore deve farmi un inventario delle cose presenti nell’appartamento mi scusi, serve per avviare le pratiche di successione, lo sa.
- Lo so
- Quindi se non le dispiace visto che le feste sono finite e anche la befana è trascorsa…
- Quale befana?
- L’epifania dottore, l’epifania
- Ah, la manifestazione intende, la rivelazione
- Come scusi?
Lo sapeva perfettamente, in certi momenti era assente, con i suoi pensieri ciondolanti in un altrove personale di cui non importava mai niente a nessuno. Nemmeno a sua madre? Beh forse a lei qualcosa importava ma lei sapeva prenderlo, almeno fino a qualche anno prima. Quanti?
- Dottore perdoni, mi ascolta? L’inventario le dicevo che ne ho bisogno per…
- D’accordo. Ci vado domani e le faccio sapere. Click!
Perché era sempre così brusco in certe situazioni e così incerto in altre? Non dipendeva dall’importanza obiettiva dell’argomento ma dal suo sentire intimo. Che non conosceva nessuno. Così era diventato da tempo un uomo strano e insopportabile tout court, imprevedibile o troppo scontato in certe sue alzate di testa senza “validi e comprensibili” motivi. Nulla era cambiato nelle stanze della sua adolescenza e in quelle dell’appartamento che stava visitando e questo non gli piaceva. Avrebbe dovuto sentirsi in qualche modo confortato, protetto da solidi principi radicati nel tempo ma non era così. La sua vita aveva preso una direzione diversa appena entrato nella prima giovinezza, allo scambio ferroviario l’addetto forse stava pensando ad altro, forse lo aveva fatto apposta ma il suo treno era finito su un’altra tratta. Accese la luce, le dita arrivarono subito dove dovevano: se ne meravigliò. Si stupiva sempre dell’automatismo di alcuni gesti suoi quasi non gli appartenessero o gli raccontassero di un altro uomo e di un’altra vita. Dal corridoio passò davanti alla cucina senza degnarla di uno sguardo, la sua stanza di ragazzo era poco oltre, il santuario delle cose perdute si trovava appena pochi metri più in là. Aveva paura di entrarvi, il motivo della sua assenza in quell’anno ormai trascorso era proprio la paura di rivedersi. E non piacersi.
- Lasci sempre la luce accesa. Possibile che debba ricordartelo ogni volta?
- Ah, sì scusami
- Ceni con noi stasera?
- No mamma, ho già un impegno ma domani sono qua sicuro.
Doveva mitigare la delusione che aveva visto spandersi sul viso della donna. Lei gli si avvicinò leggera e gli passò una carezza sulla spalla, faceva sempre così: una rassegnazione contenuta dentro un breve alito di speranza. C’era ancora forte la traccia di sua madre disegnata tra il corridoio e il salotto, tra la sua adolescenza e il resto. Dopo aver attraversato il confine del distacco la traccia restava, a volte lo segnava senza nessun preavviso, senza nessuna clemenza. E lui si sentiva a disagio, come per non aver ammesso una colpa segreta, un gesto che avrebbe potuto fare facilmente ma non aveva mai compiuto. Come mai i suoi passi nell’appartamento non facevano rumore? Chi era entrato per l’inventario aveva probabilmente sbagliato indirizzo, nell’interno num. 28 solo bilanci esistenziali di un figlio rimasto a metà. Avere la testa piena di voci chiare e un silenzio crudo e freddo lo spinse a rifugiarsi in salotto: girò lo sguardo attorno e comprese in quel momento che non sarebbe mai stato in grado di fare alcun inventario.
- Desideravi che mi sposassi
- No desideravo fossi completato perché tu da solo…
- Ci ho provato mamma
- Partendo da presupposti completamente sbagliati – lo diceva con una dolcezza mai più trovata.
- Non serve rimescolare vecchie cose
- Forse hai ragione ma noi andremo via un giorno, riuscirai ad entrare qui con equilibrio diverso?
Non aveva mai dimenticato quell'ultima lontanissima carezza e la domanda non aveva mai avuto risposta degna. Era in ascolto come allora, come sempre. Era solo in quell’abisso, solo in quella casa, solo in quella vita. L’unica che aveva o si era costruito. Si stava concependo come un’ombra, una sorta di suicidio scontato senza spettatori. Non sopportava più gli inviti ad equilibrio, compostezza, misura, solidarietà, civiltà…amore. Gli avevano spiegato il meccanismo infinite volte ma era tardi, troppo tardi: nessun interlocutore, nessuna analisi, nessuna comprensione, salotto vuoto, corridoio spento, cucina vuota, il suo nido abbandonato per sempre al numero civico 28.
Alzarsi e scivolare in silenzio tra la sua vita, guidare la sua ombra fino all’uscio era il consueto automatismo, funzionava benissimo: abbassare la maniglia, infilare la chiave nella toppa, girarla per tre volte, girarsi. Scendere le scale. La fuga era iniziata.
Con grande inspiegabile malinconia, nessuno mi ha indotto a scrivere, non c’è alcuna costrizione e nessun secondo fine…pare un fatto fisiologico per me. Il desiderio o il sogno di rivelazione e scambio, liberazione e confronto, analisi e gioco, riflessione e comprensione, se un blog è questo io evidentemente posso seguire solo questa corrente. Il fatto che sia una persona esigente può essere un problema ma ho pensato spesso che se questo spazio non riesce più a correlarsi col mondo nella maniera da me voluta, è meglio che resti in una sospensione infinita in attesa di una vita che verrà. Quando le parole sono troppe bisogna riempirle di silenzio. E’ l’unica cosa che serve per capire o per provarci almeno: io mi trovo spesso “confuso” in rete, quasi smarrito davanti alla pletora di suoni e di voci. Invecchio.
Mia madre non voleva e probabilmente aveva ragione ma a casa entravano mediamente una decina di libri al mese che si andavano a aggiungere ai molti già presenti nella grande libreria di noce che campeggiava in salotto. All’età di dieci anni avevo a disposizione un gran numero di testi: favole, romanzi d’avventura per ragazzi ed altro ancora. Che bisogno c’era di dedicarsi alla letteratura più adulta? Nessuna, ma era esattamente quella che mi attirava, in fondo il senso del proibito è una molla fortissima per avventurarsi verso l’ignoto.
Così riuscii appena lasciata la fanciullezza ad agguantare testi che non erano esattamente digeribili per un ragazzino di dodici anni: Svevo, Pirandello, Leopardi, Levi, Lampedusa, Deledda, Serao ed altri ancora. Facevano tutti a pugni con i fumetti dei miei coetanei, in realtà parlarne mi escludeva da quei consorzi umani, se volevo entrarci era meglio aggiornarmi su Tex Willer, Diabolik e cose simili. Mi aggiornai.
Però alcuni testi sfuggivano alla mia ricerca personale: di giorno prima di pranzo li intravedevo su un ripiano e un’ora dopo non c’erano più e sapevo bene che chiederne conto sarebbe stato peggio; a me dovevano bastare il diario di Anna Frank oppure il Calvino del Barone rampante, il Copperfield di Dickens o il Taras Bulba di Gogol.
Dostoevskij era lontano, Poe molto più vicino e Cervantes francamente poco comunicativo per me.
Erano gli anni dei primi pruriti, dei Playboy nascosti in cantina, dei profumi delle ragazze e di certe vertigini incontrollabili; Cesare era in agguato. Nel 1965 il primo anno di liceo mi schiuse orizzonti nuovi e vertigini ancora più inquietanti: la consuetudine con certa letteratura mi aiutò molto a non affogare del tutto dentro le ideologie, dentro una violenza e una voglia di contrapporsi micidiale. Ero un sognatore acceso e nulla sapevo dei sogni.
A Tiziana parlavo del sud in Piazza Duomo, lei mi rispondeva ma io guardavo le sue cosce sperando che non se ne accorgesse. Guardavo il futuro senza saperlo, immaginavo una costruzione perenne, una solidarietà di intenti che avrebbe obbligatoriamente condotto a un nuovo mondo e a una nuova umanità, fermo restando il fascino imprescindibile delle ragazze.
Poi un pomeriggio di novembre in una città inghiottita dalla nebbia, dietro un buon numero di libri di Croce, mentre pensavo di trovare il modo di incontrare lei in altro modo eccitandomi più del dovuto, mi trovai tra le mani “ Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
Non saprei ancora dire se fosse quello il momento adatto per incontrare Cesare Pavese ammesso che ce ne sia uno adeguato, l’unica cosa che so è che lo rilessi più volte sussurandolo. Non scesi muto nel gorgo, la giovinezza era più forte ma guardare dal ciglio di quell’abisso fu un’esperienza indimenticabile che negli anni è tornata più volte a ricordarmi la fine dentro qualsiasi inizio. Capii anni dopo perché mia madre mi tenne lontano il più a lungo possibile da quel contesto e provare poi a usare altri testi, in quegli anni di rivoluzione permanente, a usare la Casa in collina e il Mestiere di vivere non servì ad allontanare il presagio di un amore impossibile, l’unico che alla fine mi è appartenuto.
Oggi se rileggo quei versi sono asciutto, oggi posso anche farli miei, oggi la poesia non mi distrugge la vita ma nemmeno mi aiuta: Cesare si suicidò, io vivrò finchè è possibile, sono passati troppi anni da quell’agosto del 1950 ma che il desiderio di Costance possa aver causato una simile terribile meraviglia è una sorpresa che mi attraversa ancora da quel novembre dei miei primi quindici anni.
Tu sai perfettamente come compiacere un uomo ed io come fare lo stesso con una donna: che l’omologazione sia ancestrale o meno non ci tocca poiché sappiamo denudarci benissimo ugualmente. E mentiamo spudoratamente mentre lo facciamo. Voglio dirti una cosa: ci fu un tempo lunghissimo in cui mi piaceva molto essere amabile, sapevo ritrovarmi in un attimo ed ero estremamente determinato nel mio progetto seduttivo. Ah, quanto duravano le mie stagioni, le estati infinite a divorare il sole e la luce e quanta crudeltà c’era nello scivolare tra le pieghe della carne e sentirsi in armonia sempre, senza mai un ripensamento che non fosse una nuova strategia, un’onda nuova che mi portava in cresta a mostrarmi il tuo corpo nudo e acceso.
Un giorno ti dirò come e quando mi accorsi del progetto infondato e dell’altra verità, più profonda, di quando mi accorsi che la condivisione non appartiene all’amore e quanto esso sia intimamente, visceralmente nostro. Indivisibile da noi stessi, solitario. Fu uno squarcio nell’orizzonte del mio equilibrio sentimentale e tutto il resto che ne discese fu una rivelazione dolorosa, perché analizzare prima e racchiudere poi in una consapevolezza totale chi sei e come sei non ti aiuta. L’ignoranza vera o presunta aiuta a vivere e a morire con sublime leggerezza. Non altro. Col tempo navigai sempre più lontano dalla costa fino a distinguere con sorpresa che c’era una sola cosa ad attrarmi del sesso: l’ossessione del desiderio. Ho imparato quindi a cercare e a trattenere il desiderio, a riconoscerlo quando l’ho addosso. Ma dura così poco: mi abbandona facilmente e mi lascia vuoto ad osservare gli altri agitarsi per comunicarmi il loro struggimento. Ma io non li sento, sono gusci vuoti, sprecano il loro tempo e non riescono a parlarmi. Cosa pensi sia la solitudine? E’ questa attesa fra uno sprazzo e l’altro, fra un errore e l’altro. Non è vero che sia il solo, l’unico sistema di confrontarsi col desiderio sessuale, ci sono persone che scelgono più o meno deliberatamente di amare sempre sé stessi in molte donne o uomini, di consumare compulsivamente il rapporto fisico , di mettere l’ennesima tacca sulla canna del fucile.
Io attendo che il desiderio mi appartenga altrimenti è inutile, non voglio partecipare all’amore come ad un evento mirabolante in cui compari per dovere d’esistere.
Scelgo con un’attenzione estrema e sottile perché lo so bene che chi seduce in fondo perde spazio e diventa prigioniero di sé stesso… e nonostante tutto mi annoio. Ho imparato da ragazzo a percepire l’artefatto, la malizia ed ho conosciuto un sentimento mondato da questi orpelli solo due volte nella mia vita. Me li tengo stretti al corpo quegli odori e quei momenti quando la seduzione si svolgeva in un canto libero e senza necessità di presentarsi in un modo piuttosto che in un altro. Non mi è restato altro, non vedo altro. Non avrò altro.