Omologazione non richiesta

La pagina deve essere bianca e il segno scuro. L'idea deve contenere un sogno che sconfini nella passione, la memoria deve avere il coraggio di esistere. Il blogger deve credere di possedere la scrittura: solo così i segni sulla pagina vivranno più a lungo di lui.

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Località: Sicilia, Italy

Scrissi molto e a lungo. Inutilmente poi ho atteso risposte che non arriveranno mai. Scrivo ancora per ricordarmi d’esistere e fermare il suo sapore. Ho deciso di lasciare visibili tutti i commenti, sono parte del blog.Non riuscirò mai a conciliare l’inconciliabile e non c’è più tempo comunque: attraversare tante vite e tanti territori mi ha arricchito e spogliato allo stesso tempo ed io sono siciliano, quando rido ho dietro l’ombra della morte e dell’inutilità, se piango lo faccio di nascosto davanti al mare, l’unico interlocutore assoluto che conosco. Sono figlio dell’ alta borghesia colta palermitana, cresciuto a pane e letteratura, ad urla e silenzi, a scirocco e nebbie lombarde, a Mozart e beat generation: per lungo tempo ho creduto che fosse possibile vivere tutte queste sinapsisenza strappare la tela della mia vita. E’ una menzogna. OMOLOGAZIONE NACQUE NEL 2008 questa era il suo incipit e questo il suo template originale. Resterà tale, è una questione di affetto.

domenica 31 agosto 2025

RITROVARSI –

– Guarda che sto male. 
– Non sai amare diversamente? 
– No e non lo dici sul serio. Vedi? E’ una vertigine e non ho nemmeno la forza di baciarti. 
Attendevano da venticinque anni il ritrovarsi. C’era il caldo di fine estate, quello di una sera che recita le solite litanie di fine stagione. Ogni volta sono sempre di meno, devi trovarci un senso diverso magari rinforzandole con i ricordi di quelle trascorse. Ma fa male…almeno un po’. Conosceva quella casa all’ultimo piano e la grande terrazza col panorama verso il mare e le stelle. Si, la conosceva bene anche se talvolta si era camuffato da viandante distratto. Conosceva le intime fibre di quelle pareti, adesso muovendo i suoi passi in corridoio le voci e i volti ricomparivano tutti ad uno ad uno. 
– Guarda che sto veramente male e devo nasconderlo. 
Non aveva particolari ritrosie per la socialità, dipendeva dal momento e dal luogo, che fossero un palcoscenico adeguato alla recita che egli proponeva. Ma gli altri lo sapevano? Gente così, nè bene nè male ma anche lui in fondo era allo stesso modo. Fuori, perchè nell’intimo c’era un abisso profondo e sconosciuto ai più, lui lo aveva difeso sempre a denti stretti. Sul divano in sala da pranzo stava seduta la signora, la rivedeva come l’ultima volta dieci anni prima, con quel suo sorriso aperto e il piacere di rivederlo che mostrava ogni volta. Risentiva la sua voce e i discorsi tra loro: parlava con lei ma nel cuore c’era la figlia e stimando un improprio eccessivo l’avvicinarsi a quella riempiva con la madre il colloquio di metafore e attenzioni. La signora avrebbe compreso? Certamente sì ma ormai era tardi anche per quello: due sole interlocutrici ed una era morta da qualche anno. 
Attendeva da venticinque anni il ritrovarsi. 
– Vorrei che parlasse il silenzio tra di noi. Vedi? E’ una vertigine… 
Poggiato sul muretto della terrazza guardava quella parte di città perdersi nel buio della sera, il confine della costa era segnato dalla lunga fila di fanali lungo il litorale. Il mare oscuro, sconfinato dentro la terra indefinita, una metafora perfetta. Poteva usarla ancora, anche lì anche in quel momento mentre qualcuno degli invitati parlava con lui ed egli conversava amabilmente del solito più o del solito meno. Doveva farlo altrimenti le eco di prima lo avrebbero inghiottito. Scivolò in compagnia lungo la parte più larga della grande terrazza e disse molte cose, dimenticandole immediatamente dopo. Si faceva attraversare dai ricordi e non si capacitava come gli altri non se ne rendessero conto, lui si sentiva nudo. Totalmente nudo. Attendeva da venticinque anni il ritrovarsi. 
Il suo personale cerchio vitale girava attorno a lui e a quella casa ma mancava una fotografia; lo aveva notato all’ingresso. Lei giovanissima in costume immersa nell’acqua bassa e trasparente di un mare amico. Tutto il resto era al suo posto ma la foto non era più appesa nel corridoio tra il bagno e la cucina. Sembrava un addio crudele. Naturalmente la chiamata alla realtà del sedersi a tavola arrivò nel momento meno opportuno ma lui si domandò cosa ci fosse di opportuno quella sera, quanti minuti si sarebbero potuti confrontare col desiderio di allora. Occhi chiari gli sorrise, un attimo ad attraversare lo spazio, una virgola e una sospensione. La sera era diventata ormai notte e il cibo era buonissimo. Riuscì a trovare posto a tutte le chiacchiere, le risa, i bicchieri e le posate: ogni cosa al suo posto sul tavolo e in questa vita. Lui perennemente estraneo. 
– Guarda che sto male…dimmi che saremo insieme almeno in quell’altro modo. 
Scenografia perfetta, attori raffinati, sipari aperti e chiusi: il mare, la pesca, i ricordi…la sua morte era scritta in quel copione? Attendevano da venticinque anni il ritrovarsi. Occhi chiari non c’era, il resto sì, il cielo era sereno, la casa benevola, si alzò ed entrò in casa al momento giusto perchè nella sceneggiatura quella era una parte, che non prevista, non sarebbe mai stata pubblicata. Lo sapeva benissimo. Non cercava nulla adesso, gli bastava frusciare tra i libri della madre e i dischi del padre, quanto tempo era passato? Tre o quattro decenni, tre o quattro vite o solo una, la sua, in attesa di una degna conclusione? Attraversando il corridoio la vide con la coda dell’occhio in cucina, proseguì e chiese con naturalezza del bagno. 
– Certo, è lì a destra, lo sai – gli si avvicinò e con aria complice gli fece cenno di seguirla. Aprì la porta dell’ultima stanza in fondo e gli mostrò la foto appesa sulla parete. 
– Eccola, guarda- 
Non riuscirono a dire altro. In due metri quadrati seguirono il loro destino perchè non c’era nient’altro da fare e fu lei a tirarlo verso di sè, a poggiare le sue labbra sulla sua bocca. Attendevano da venticique anni il loro inizio e stringendosi l’uno sull’altra non desideravano altro che quel lunghissimo bacio: senza altro che il sogno segreto che avevano custodito per sempre. La notte infinita scivolava su di loro, la casa li guardava silenziosa.

giovedì 28 agosto 2025

ANCIENT TIME -

Non può crederci nessuno, lo so bene. Eppure l'eco lontanissima di quegli anni è ancora qui. Dentro le pieghe della mia vita mentale, dentro l'utopia crudele di averci creduto e di crederci tuttora. Tu ci sei da quando ho compreso e vissuto anche girandosi ogni tanto indietro… via. C’è spazio? C’è spazio forse se vai via. Altrove con ottiche diverse e volontà nuove. Finiremo per percorrere sentieri antichissimi, obsoleti, fuori da questo virtuale dentro un altro reale che se ne frega delle nostre artificiosità sciocche. Sciocche, sciocche, sciocche. Via. Lontanissimo così da credere che sia stato un altro e di essere seduto in una sala cinematografica davanti ad uno schermo: il film è UN AMORE DIFFICILE.
 
Desiderio di seno, di pelle, di labbra: cerco di penetrarti con le parole e ti bevo con la mente. Sono trascorsi pochi istanti ma non posso più tornare indietro, è una tensione inarrestabile verso un orgasmo liberatorio; te ne sei accorta e ti sei riconosciuta, mi agganci con i tuoi occhi verdi, quasi febbricitanti, e non mi lasci più. Forse pensavi che tutto questo non fosse possibile, pensavo anch’io la stessa cosa prima di conoscerti. Ascoltami, ora, in un attimo, sta morendo il vecchio ragazzo che sapeva molte cose. Al suo posto sta nascendo un uomo nuovo, ignorante di tutto, ma curioso d’ogni cosa. Parlami, signorina, avvelenami un po’ alla volta: sta scomparendo tutto, gli oggetti e le persone intorno a noi. Saremo soli io e te fra poco, assolutamente soli. Quel che non sapevo è che la solitudine di noi mi avrebbe accompagnato per sempre. Non avevo la certezza di volere la verità a qualunque costo, quelle belle verità che ti accolgono in un’inevitabile abbraccio. Potevo giustificarmi con l’enormità del fatto: l’amavo, anzi l’avevo amata moltissimo. Inutile negare, sciocco girarci attorno. Era questa la verità pura e semplice. Mi restava lo sterile esercizio di crogiolarmi nella rassegna dei fatti: cosa eravamo noi? Chi eravamo? Dieci anni prima eravamo due bambini che talvolta s’incontravano: troppo piccoli e lontani, uno a Milano l’altra a Trapani: due ragazzini ai capilinea dell’Italia e della vita. Che potevamo mai raccontarci di tanto impegnativo da riannodare ogni volta i fili? Nulla, credo, quasi nulla. Ma le risate risuonavano, quelle di lei soprattutto, tante e naturali; argentine come piccole cascate destinate ad estinguersi ai primi calori. Solo risate e piccoli segreti, da pronunciare sottovoce, con la mano davanti alla bocca. Confidenze ormai dimenticate per sempre, questo eravamo. 
Però, durante una lunghissima e immobile estate, un gesto adesso lo rivedevo: staccato da tutto, particolare. Lei non poteva essere così spesso stanca da posare la testa sulla mia spalla. Gli adolescenti possiedono la forza di dimenticare di se stessi, è un meccanismo d’autodifesa per sopravvivere all’eccessivo profumo della vita e percorrere ogni sentiero senza sceglierne nessuno. Unici testimoni del momento furono quindi la spiaggia dorata sotto l’acropoli di Selinunte e i nostri quindici anni. Eravamo ad un passo dal Paradiso e ci scherzavamo sopra. Durante quell’estate accadde spesso, gli amici e i parenti non videro, non capirono…non capimmo nemmeno noi. Il sole di quella stagione del ‘66 fu così implacabile da bruciare in fretta ogni idea, ogni proposito. Ci alzammo presto dall’arenile e ce n’andammo, ognuno per la sua strada: volammo via come pagliuzze mosse dal vento di scirocco. Adesso vedevo tutto con chiarezza: le stagioni che trascorrevano uguali, le estati seguenti che si erano consumate distrattamente. Un’occasione sospesa: quattro anni prima ero abbastanza giovane da avere dentro il grande vuoto da riempire in fretta di sogni verosimili; il vuoto adesso mi stava inghiottendo nuovamente! 
Dimenticare, dimenticare, l’unica parola d’ordine valida; impossibile eseguire l’ordine capitano riesco solo a ricordare… La tarda estate del ‘73 a Palermo mi riservava una sorpresa dietro l’altra. La più grande riguardava la luce, un fenomeno banale che, invece, da queste parti aveva una personalità decisa che mutava il carattere e il significato delle cose. Questo era fondamentalmente il motivo per il quale uscivo quasi ogni sera prima del tramonto. Volevo godermi il trascolorare della luce sulle case, le vie, le piazze. Volevo imprimere nella mente il colore del cielo dietro gli alberi di Viale Libertà un minuto prima dell’ultimo guizzo di sole, salutato e accompagnato dal cinguettio impazzito di migliaia d’uccelli che si preparavano alla loro precoce notte. Quando arrivò il primo Natale siciliano con i suoi diciotto gradi a mezzogiorno e il sole caldo sul mare azzurro di Mondello, pensai ad uno scherzo bizzarro del calendario e cominciai a capire che c’erano ancora moltissime cose da regolare sul nuovo fuso orario della mia vita. Pensai solo a questo e non potevo immaginare il cataclisma in agguato in una luminosa mattina d’Aprile in una strada di un piccolo paese bianco alle porte di Trapani. Io non sapevo, mi sono interrogato mille volte, la risposta è sempre la stessa: io non sapevo, non avevo considerato i segni che pian piano negli anni s’erano coagulati. Avrei dovuto invece, potevo vedermi che ero maturo, pronto a cadere nell’unica direzione preparata per me dalla vita. Selinunte, la spiaggia, i piccoli segreti, le confidenze, la sua testa poggiata su di me. Non ci fu alcuna premonizione. Solo un lampo accecante. Conoscevo solo me stesso innamorato di te: una sensazione esclusiva e totale: il riflesso d’un uomo innamorato, pieno di sé, forte del suo sentimento nella mente e nel corpo, compiaciuto della propria inaspettata bellezza. Quando diventò un’illusione ottica te ne accorgesti solo tu… e cominciai a farti pena, poi rabbia ed infine, per evitare il fastidio, te ne andasti lontano a studiare, a costruirti un avvenire. Per noi potevano bastare qualche lettera o qualche telefonata; altre erano le cose importanti, le prospettive da modellare. I sognatori sono morti…si dispensa dalle visite. Mi bastò guardarti in viso perché l’inquietudine diventasse paura. Ero appena sceso dal treno ed eri lì sul marciapiede ad aspettarmi con la famiglia al gran completo. Baciarti sulle guance, abbracciarti, fu come strapazzare le corde di un violino. I soliti convenevoli s’intromisero a non far precipitare la situazione, al resto pensarono i familiari. 
Per tre giorni, incredibilmente, custodimmo i nostri resti senza una preghiera, un lamento, la tua pelle era cerea, i tuoi meravigliosi occhi verdi opachi e sfuggenti. La recitai anch’io la parte del fidanzato che esce a passeggio, che fa salotto con parenti e amici, che ride celiando alle battute di rito. Riuscii anche ad ingurgitare di tutto, a pranzo e a cena, anche il fastidio di me stesso. Ma alla quarta colazione la catena di montaggio delle ipocrisie inutili si arrestò. La parte di me che in tutti gli anni precedenti era stata espulsa dall’aula, con un colpo di mano rientrò, trovò un attimo di pausa e con poche parole raggelò l’uditorio. La maggioranza, ovviamente, reagì con vigore appellandosi alla profondità dei sentimenti più veri, all’ovvietà e alla bellezza dell’amore che trionfa sempre su tutto e tutti, ma era già in crisi. Il tarlo del dubbio aveva iniziato il suo lavoro distruttivo. Maledizione, maledizione Giusy: al diavolo i pranzi e le cene, le chiacchiere e le visite, alla malora questi sorrisi da saldi fine stagione. Al diavolo tutto signorina. Che c’era nei tuoi occhi? paura, disappunto, fastidio… il nulla? Non c’era comprensione né solidarietà, ma al pranzo ci arrivammo lo stesso. E fu qualcosa di memorabile. Nonostante gli sforzi delle persone che ci sedevano accanto persisteva nell’aria la sensazione, incombente, che qualcosa stava per accadere. La mia fidanzata, inappuntabile, sembrava districarsi bene in questo gioco di bastoncini cinesi: ne aveva già levati dal tavolo un paio di veramente pericolosi. Il pubblico venuto ad assistere alla commedia “Un amore difficile” stava iniziando a tirare un po’ il fiato: forse si andava verso un lieto fine e già circolavano i primi sorrisi di compiacimento. Fu una frase, una piccola serie di parole, una caratteristica del tuo modo d’essere tagliente nel parlare. Arrivò dura, inaspettata, dolorosa come un tradimento… non riesco a ricordarla nemmeno ora. Calò come una mannaia e già non c’era più nulla da fare, la reazione a catena si era avviata. Finalmente dopo giorni e giorni eravamo soli, nuovamente soli come qualche anno prima e tutto il mondo si stava tirando in disparte, sullo sfondo. Ti guardai in silenzio, mentre furtivamente ti mordevi il labbro. Io ero un automa e quel che vivevo era un incubo pari per intensità solo al silenzio che regnava in salotto. Continuavo a far scorrere nella testa gli ultimi anni, ma stavolta i conti non tornavano: i sogni, le emozioni… ogni cosa con un sapore diverso. Il paese antico, poggiato in cima al monte fu l’unico testimone dell’assassinio: guardava da millenni quel panorama, quella terra di viti e gerani, di sale e di azzurro, di mulini a vento e di sole. Speravo che potesse convincerti, che fosse capace di dirti ciò che io non sapevo. Speravo….Faticai persino per convincerti ad entrare in salotto. Volevo parlarti, chiarirmi con te. In realtà non sapevo nemmeno da dove iniziare e tu non mi aiutasti. Eri lì, terrea in viso, rigida come una statua di cera che, sciogliendosi, muta forma e dimensioni sino a diventare una macchia senza senso sul terreno. 
Te lo chiesi, infine, se ancora mi amavi e non volevo sentire la risposta – Non lo so, Enzo. Non lo so più – Il mare aveva inghiottito l’arenile e i due ragazzi che vi passeggiavano sopra. Addio signorina, ero ridiventato il vecchio ragazzo che sapeva molte cose e, mentre scendevo le scale di casa tua per l’ultima volta, mi fermai e guardai in alto. Eri lì, al primo piano. Mi guardavi anche tu, i tuoi occhi, i tuoi magnifici occhi verdi, smarriti, inutilmente provati. Fuori il vento sollevava polvere, dovevo fare in fretta, il treno per Palermo partiva alle diciotto e trenta. Infine ci voleva del tempo per capire, un tempo non definibile, breve o lungo che fosse. Tu eri appunto il mio tempo, quello che mi serviva per raccontarmi nei gesti più disparati e apparentemente lontani. Le frasi giuste arrivarono in ritardo come sempre: dicevano, di un uomo fortunato perchè aveva conosciuto l’amore che si trova nei luoghi e nelle persone, nelle parole e persino nelle ideologie, nelle fughe e nei ritorni. L’amore era un patrimonio enorme e noi non potevamo contenerlo tutto…si apre un interruttore, un giorno, e poi a ondate la vita ti porta via come un fiume in piena e tu non puoi rifiutarti di essere diverso da prima! Il treno mi distanziava come un replay al contrario C’era qualcosa che mi chiamava in questa terra dove sono nato e non era solo desiderio di luce e di sale, era il bisogno assoluto di rientrare nel calco prima che fosse troppo tardi: l’orologio scorreva in fretta ed io già intravedevo la periferia della città dal finestrino: Palermo, stazione di Palermo Notarbartolo, gracchiò la voce dall’altoparlante e mi sembrò un motto di scherno. Il primo di una lunga serie.

martedì 26 agosto 2025

L'odio in giacca e cravatta

Avrei voluto scrivere testi nuovi di altro tenore, mi ero detto che altrimenti non avrei pubblicato mai più; ma la cronaca di questi ultimi tempi e il suo martellare volgare e continuo, i suoi scontri pieni di livore e assolutamente niente altro mi han convinto a riprovarci, se non altro per onestà storica. Mi piace stuzzicare i soloni del web odierno, i progressisti a un tanto al chilo che semplicemente o volutamente ignorano la storia che pur gli è passata vicino.

Germania fine anni 30, non gridavano “morte agli ebrei”. Firmavano decreti. Non imbracciavano fucili. Compilavano elenchi. Erano medici, giudici, maestri. Gente normale, gente educata. Gente colpevole. Nessun filtro. Nessuna pietà. Come i peggiori crimini contro gli ebrei sono stati firmati da chi sembrava innocuo. Ben pettinati. Ben truccati. Beneducati. Il volto del male, a volte, indossa un doppiopetto. Non urla, non impreca, non spara. Ma firma. Firma decreti, protocolli, ordinanze. Chiude scuole. Espelle bambini. Compila liste. E nel frattempo ti guarda negli occhi, e ti dice: “È per il bene comune.”
Il genocidio comincia sempre con un tono pacato e le grandi persecuzioni non iniziano con le camere a gas. Iniziano con il vicino che ti sorride mentre denuncia tuo padre. Con la segretaria dell’ufficio comunale che ti cancella dai registri scolastici. Con il preside che ti consegna la pagella e ti dice: “Non puoi più tornare”. È così che è cominciato. È così che hanno fatto fuori gli ebrei. Con garbo. 

1492. L’eleganza dell’espulsione Spagna. Isabella e Ferdinando, i Re Cattolici, la cristianità trionfante. la croce sopra ogni porta. E gli ebrei? Fuori. L’editto di Granada li caccia tutti: convertiti o sparite. Niente urla. Niente fucili. Solo pergamene con sigilli reali, lettere col timbro, vescovi con l’anello. Chi resta viene bruciato. Chi non si converte viene torturato. E nessuno ha detto niente. Perché l’Inquisizione era giusta. Perché la Spagna era “perbene”. 

1933–1945. I tecnocrati del massacro I nazisti? Certo. Colpevoli. Ma chi ha reso possibile l’Olocausto sono stati i milioni di cittadini rispettabili. I funzionari con la cravatta. Gli insegnanti che spiegavano “l’ebreo degenerato”. Gli operai che costruivano i treni della morte. I medici che facevano esperimenti su neonati. I banchieri che espropriavano conti correnti “non ariani”. Non erano belve. Erano impiegati, colletti bianchi, brave persone. Sapevano tutto. Ma non avevano “nulla da eccepire”. 

Italia, 1938. Fascismo col sorriso Le leggi razziali non le ha scritte Hitler. Le ha firmate l’Italia dei salotti. Il Re le ha approvate. Gli accademici le hanno difese. I giornali le hanno giustificate. Un intero popolo che, pur sapendo, ha guardato altrove. Studenti cacciati. Professori umiliati. Negozi ebraici chiusi. Professionisti radiati. Poi deportati. Poi uccisi. E gli italiani? Aperitivi, processioni, famiglie al mare. 

Francia, 1942. L’aristocrazia della vergogna. Velodromo d’Hiver. Parigi. La polizia francese raduna oltre 13.000 ebrei, 4.000 sono bambini. Li chiude lì, senza acqua né cibo. Poi li carica sui treni per Auschwitz. Non fu un ordine tedesco, fu Vichy, fu la Francia stessa. Quel Paese illuminato, colto, repubblicano. Li ha rastrellati uno a uno. Con precisione, con efficienza, con “civiltà”. 

Il male elegante di oggi Oggi non ti dicono “morte agli ebrei”, ti dicono: “Israele esagera”. Non dicono: “sono terroristi”, dicono: “sono resistenti” e usano parole come “genocidio” per attaccare chi si difende. E mai, mai, per condannare chi ha cominciato. Mai per Hamas. Mai per Hezbollah. Mai per chi manda un ragazzino a farsi esplodere. Il tutto con toni misurati, podcast eleganti, articoli pieni di “sfumature”. Sono quelli che dicono “non sono antisemita, ma…”  Poi vengono fuori col solito ritornello: “Gli ebrei comandano tutto”. “Ora fanno agli altri ciò che hanno subito”. “La Shoah non può giustificare l’occupazione”. Odio, mascherato da diritto all’opinione. 
La verità fa schifo. Ma va detta. Le grandi tragedie non le ha mai compiute il pazzo isolato. Le hanno fatte le società intere. I popoli interi. Con il consenso tiepido della “gente normale”. Con le mani pulite, e l’anima sporca. Oggi come allora, il male non ha bisogno di mostri. Gli bastano gli indifferenti, i benpensanti, i moralisti a senso unico. E se non lo capiamo in tempo, succederà di nuovo. Perché sta già succedendo.

venerdì 22 agosto 2025

Domande senza risposta

Mi hanno chiesto un mese fa di firmare per un Nobel a Francesca Albanese. 
La Albanese relatrice speciale dell’ONU per i Territori palestinesi, ha costruito la sua carriera denunciando Israele. Con toni sempre più accesi, fino a sfiorare la militanza. Ma c’è qualcosa che manca nei suoi report, nei suoi tweet, nei suoi interventi pubblici: la verità intera. O almeno, la parte scomoda. Non spetta a lei, si dirà. Eppure, un relatore speciale ha ampia libertà di segnalare violazioni, di richiedere ispezioni, di documentare crimini, anche se non direttamente contemplati nel mandato. La Albanese non lo ha fatto. Non ha nemmeno provato. 
Perché non ha mai dedicato un solo rapporto ufficiale ai crimini di Hamas, in particolare l’uso sistematico di scudi umani e la militarizzazione delle infrastrutture civili? 
Perché mai ha taciuto sull’esistenza dei tunnel di Hamas costruiti sotto scuole, ospedali e moschee? È o non è questa una forma di crimine di guerra contro la stessa popolazione palestinese? 
Che ne è stato dei miliardi di dollari inviati a Gaza in aiuti internazionali? Perché non ha mai denunciato formalmente l’utilizzo distorto di questi fondi da parte di Hamas per scopi militari? 
Perché non troviamo nei suoi report una sola parola sul fenomeno dei bambini soldato a Gaza, addestrati dalle milizie di Hamas? 
Ha mai chiesto alle autorità di Gaza di consentire a osservatori indipendenti di verificare la presenza di basi militari e depositi di armi in aree civili? Se non lo ha fatto, perché? 
La corruzione interna a Gaza, che sottrae risorse umanitarie ai civili per arricchire la cupola di Hamas, non merita forse una denuncia da parte sua? 
Non crede che, nel concentrarsi esclusivamente su Israele, il suo operato abbia finito per legittimare Hamas come presunta 'resistenza', ignorandone la natura terroristica secondo la definizione ufficiale di Stati Uniti, Unione Europea e altri organismi? 
Perché non ha mai sostenuto la necessità di un’indagine internazionale indipendente sui massacri del 7 ottobre 2023? Le torture, le violenze sessuali, gli incendi di civili israeliani non meritano un approfondimento ufficiale da parte dell’ONU? 
Parla spesso di apartheid, ma perché non definisce ‘oppressione’ il dominio di Hamas su Gaza? 
Se la sua missione è la tutela dei diritti umani, perché non ha mai denunciato la condizione delle minoranze nei territori palestinesi? Penso ai cristiani di Gaza, alle donne soggette ai codici islamisti, agli oppositori politici eliminati o ridotti al silenzio. 
La relatrice speciale potrà rispondere che non era suo compito. Ma la verità è che un mandato non impedisce la coscienza, né la dignità del ruolo internazionale che si ricopre. E quando si sceglie di guardare sempre e solo da una parte, si diventa megafono. Non garante dei diritti umani. Naturalmente, la relatrice potrà avere le sue ragioni e rispondere punto per punto. Ma il silenzio su questi temi rimane un fatto.

sabato 16 agosto 2025

LA MALINCONIA DEL FALLIMENTO -

Ho detto sempre che scrivo in modo veritiero, l’ho affermato con forza ma talvolta non ho raccontato tutta la verità, non ne ho avuto il coraggio. La solitudine assoluta del mio pensiero si riflette nella mia vita e nei miei rapporti sociali, scrivere fino in fondo l’ho percepito come una esclusione definitiva dal “resto”. Ne ho avuto paura. 
Tutto il blog, tutti i miei blog in questi anni sono vissuti sotto questo timore sottile, la ragione profonda dei miei atteggiamenti in rete nasce da lì. Vedo di tanto in tanto nuovi lettori di queste pagine, ne provo un gran piacere ma dura poco, immediatamente dopo penso cosa mai troveranno qui. Credono che io sia altro probabilmente, immaginano un blogger diverso da quest’uomo che stasera batte caratteri sulla tastiera. Quando scrivo o leggo, le righe sono qualcosa di vivo e reale, sono un’avventura che ti attraversa e infine, come l’amore, le amicizie, i dolori e gli affetti, come ogni cosa ti logora e ti stanca. In realtà la colpa è mia perché vedo e immagino ciò che è scritto come inattaccabile, allo stesso modo in cui sogno e vorrei che fossero certi sentimenti: non toccati dalla miseria della vita che ci segue passo passo anche se, a ben vedere, è proprio tale condizione spesso ad essere il loro nutrimento. 
Voi non potete immaginare quanto siano luminosi i miei sogni ad occhi aperti: diventano una specie di oasi, un porto franco che mi difende da tutto e tutti. Nella mia stanchezza è la solitudine e, al tempo stesso, la necessità di difenderla perché resta l’unico modo di proteggere il mio diritto alla individualità. Complicato? Eccessivo? Di fatto sempre più spesso non mi riconosco, nemmeno nella comunicazione che tento di avere col resto del mondo; io so perfettamente che chi scrive ha un solo modo per sapere se ci sia altro al di là della sua visione: avere un lettore, un lettore che lo estragga dalla moltitudine della solitudine e renda concreta la sua individualità. Ed è appunto qui che crolla tutto il mio castello di belle idee: io non mi adeguo e non capisco. Non accetto il comodo di adagiarmi sul mondo virtuale che mi circonda, la mia essenza intellettuale fà capolino ogni tanto e poi si richiude spaurita o schifata da ciò che avverte. Non ho praticamente nulla in comune con la totalità delle cose che mostrate di voi: ideologia di fondo, senso della vita, religiosità, storia, divenire, il prima e il dopo. Niente in comune… ma al di là del vostro esserci non c'è altro, non ho altro, il mio modo è solo mio non ci sono interlocutori adeguati altrove ma solo esseri rozzi e crudeli, ignoranti di tutto, un universo cui non apparterrò mai: se non posso concedermi a voi non posso farlo a maggior ragione con loro. Si può continuare ad esistere pur senza riconoscersi nel territorio dove vivi? Se sai per certo e assoluto che è la terra che gira intorno al sole come fai a vivere dentro una girandola di opinioni geocentriche? Così trasferisco nell’anticamera dell’opinabile concetti digeriti decine di volte e mi impongo di andare a leggere breviari di altre religioni. Mi piace conoscere nuove cose, nuove persone. Amo tutto questo, me ne innamoro e lo amo profondamente… ma non amo le tendenze, le mode costruite per far passare il tempo: mi sento relativamente a mio agio solo fra quelle che per un motivo o per un altro conosco da tempo. 
In realtà comunico con una certa difficoltà (non prendetela per una bestemmia!) e solo con chi è abituato al difetto di questo mio lento modo d’ascolto e fondamentalmente se ne frega di apparire ad ogni costo. Penso sempre che se è indulgente con me lo sarà anche con la vita e col prossimo… ma anche questa è una cosa a metà vista la scarsa sopportazione che ho con me stesso. Però vi chiedo e mi chiedo: dovrei rinunciare alla mia visione delle cose solo perchè è più scomoda e meno “adeguata” ai tempi, perché i miei interrogativi e la mia storia sono scritti altrove? Io arranco quotidianamente dietro le contraddizioni della mia esistenza e del mio scrivere, dietro la solitudine che non è né brutta né bella ma solo una mantide. Una creatura che si nutre di ciò che gli è simile, ma che, per vivere, deve trasformarlo in altro e quest’altro in qualche modo mi sfugge, ed è così che scrivere assume la stessa ambiguità di una solitudine in cui non si è più se stessi. E questo è proprio il massimo della beffa. Ho la malinconia del fallimento, anche ora in questo momento ma continuerò a cercare: invidio la sicurezza di alcuni di voi, la fede incrollabile. Per me raccontare e raccontarmi è un sentimento delicato. A volte ho paura di sciuparlo.

venerdì 8 agosto 2025

TORNO A CASA -

Stasera torno a casa, ai luoghi in cui muovermi è automatico e il trascorrere è rimasto un fruscio. Stanotte sulla spiaggia che mi vide bambino attenderò che altri sogni scendano quaggiù a riempirmi il cuore. Le stelle scivoleranno giù lasciando nel cielo le scie del loro splendore mescolato alla magia che i desideri portano sempre con se. Vorrei fosse diversamente ma sarò solo: porto le stimmate di una condizione esclusiva non più rimediabile ormai. Ho già pronta la scatola con la mia lucciola personale, l’aprirò per far da richiamo alle sue sorelle del cielo, che non si scordino di me quaggiù; le attendo da un’estate all’altra, da una stagione all’altra, fingendo sempre che una carezza possa mitigare la disillusione di una vita. Sorriderò questa notte quando arriverà la liberazione della tua voce e sarà di nuovo agosto con le cicale ad esaurire la notte e l’andirivieni delle onde a immortalare il tempo.

sabato 2 agosto 2025

THE TIME THEY ARE A CHANGIN' -

L’estate di 47 anni fa di questi tempi era pronta a partire ed io stavo per mettere le mani sui miei 17 anni. Gran cosa! Il suo fiato caldo lo sento ancora: ha ingaggiato con me una gara sul tempo, un gioco che non dà nessun premio ma ti brucia dentro e che devi per forza restituire fuori. E’ una mano tesa fra le generazioni ad affermare che la bellezza e la poesia salveranno questo mondo. Crederci o meno è una possibilità come tante altre, la forza dell’amore e della vita continueranno per la loro strada e avremo tutti l’occasione di piangere, un giorno, per la felicità di esserci, di averci creduto o di doverci ricredere. 
Le estati sono tutte emozioni rapprese che si sciolgono sotto il sole e scivolano insinuandosi sotto la nostra pelle, sembrano diverse ma in realtà assumono semplicemente la forma della nostra vita in quel momento. L’estate è sempre l’identica rivelazione che sale sul palcoscenico con presentatori diversi, la sua apparizione suscita reazioni varie che vanno dagli applausi scroscianti all ’incredulità silenziosa, ma la sua bellezza è sempre maestosa, a me lascia ogni volta incantato, senza fiato. Nei suoi paesaggi aperti, nei suoi colori decisi e in quel senso di prospettive eterne e ripetute che ci fanno ritornare sempre all’idea che tutto è possibile, che è solo questione di tempo e i cieli si apriranno per lasciarci vedere l’azzurro e le mille strade che lo attraversano. Abbiamo di nuovo diciottanni e nessuno potrà cambiare le cose, è come il primo amore, se ne andrà ma cambierà la nostra vita per sempre. Ogni estate diventiamo maggiorenni ed è una sensazione indimenticabile, sgusciamo fra i nostri errori e le nostre vittorie, ce le rimiriamo e facciamo finta di credere che sia per sempre, condividerle con gli altri è una fede. 
La mia estate a guardarla da questo blog sembra perfetta e unica, punto di riferimento epocale e sociale; persino la musica suona in modo speciale. E’ quella di Bob Dylan, è la poesia della vita che ci conduce e ci salverà dalle altre stagioni e dalle mille morti che ci attendono ai lati del sentiero. Ma è un trucco, le note sono sempre le stesse ed io vesto ogni volta un abito perfettamente conservato e mi ci pavoneggio dentro. Nessuno di noi può dimenticare l’estate in cui siamo diventati grandi e ci siamo chiesti qual’era la nostra direzione e dove ci avrebbe condotto il profumo di quella ragazza incontrata la sera prima; nessuno può dimenticare che la musica era esattamente quella che avevamo dentro, crescere è stato solo un momento, la rincorsa per tornare ogni volta al punto di ripartenza. Così sciamiamo via incoscientemente ma in fondo lo sappiamo che niente e nessuno potrà fermare la forza dell’amore e la bellezza della scoperta: 
The time they are a-changin’